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1° Episodio della rubrica #LeNostreStorie. Oggi a raccontarci la sua storia di Endometriosi è Sabrina Quattrini. La sua esperienza è da leggere tutta d’un fiato. Buona lettura.

A gennaio (2010) nascerà la mia terza figlia.

Fino a pochi anni fa nessuno avrebbe scommesso su un simile epilogo, non almeno dopo la visita post-operatoria con uno dei ginecologi più accreditati della mia zona, e neanche dopo aver consultato l’esperto di procreazione assistita, il quale senza avermi neanche visitata, aveva proclamato: «Nelle sue condizioni l’unica strada percorribile è la procreazione assistita, con probabilità di successo più elevata e i tempi più brevi» e poi «nei paesi anglosassoni le tube chiuse vengono asportate».

Nessun accenno alle difficoltà e ai rischi cui sarei andata incontro, alle conseguenze sulla mia salute e sul numero di figli che avrei potuto avere in una sola gravidanza. Ero uscita dal suo ambulatorio un po’ disorientata e con la speranza di non imbattermi più in personaggi simili.

Suona il telefono, è mia madre.

«Ciao amore, ho appena parlato con la dott.ssa S. del tuo problema di infertilità e mi ha detto…».
«Mamma! Lo sai che non mi va che parli delle mie cose con tutti».
«Scusa ti chiamo dopo, è entrata una cliente».

Insomma, chiedo troppo se vorrei un po’ di discrezione sulla mia situazione? Già una volta, che avevo confidato a mio padre che cominciavamo a cercare la gravidanza da quel mese, lui aveva dato l’annuncio al mondo intero, in quanto, per come la pensava lui: «Se ha preso dalla madre, che bastava il mio sguardo per restare incinta, il nipote sarà già in arrivo!».

Da quel primo mese era passato un anno prima che ci sorgesse il dubbio che ci fosse un ostacolo reale alla gravidanza.

Quando avevo chiesto al mio ginecologo di fare qualche accertamento, la risposta era stata: «Trascorra delle belle vacanze e non ci pensi troppo, perché se si fa cogliere dall’ansia la gravidanza non arriva».
Già quella volta ero uscita da un ambulatorio con la sensazione che il medico non avesse centrato il problema.
Le analisi le avevo fatte di mia iniziativa e con un semplice monitoraggio del follicolo avevo scoperto, primo, che l’ovulazione era regolare, secondo, che si era formata una cisti ovarica endometriosica di dieci centimetri di diametro, che doveva essere asportata prima possibile.

Qualche giorno prima della data dell’intervento programmato, ho avuto una colica addominale e sono stata operata d’urgenza. Dopo quattro ore di sala operatoria la cisti, e una buona porzione di ovaio, era stata asportata. Poi ho dovuto assumere dei farmaci inducenti la menopausa transitoria per mettere a riposo le ovaie per 6 mesi. Alla successiva visita di controllo il medico mi comunicava che la probabilità di rimanere incinta naturalmente era remota e mi consigliava di rivolgermi al centro anti sterilità. Suona il telefono.

«Ciao. Ti è passata la sfuriata?».
«Sì, scusa mamma. Racconta».

«La dottoressa mi ha riferito di una sua ex paziente che ha girato tutta Italia e infine ha risolto il problema di infertilità rivolgendosi al dottor I.».

«Le è andata bene; per un caso così ce ne sono altri cento che vanno male. Mamma, l’ultima cosa di cui ho bisogno ora è di illudermi. Forse è meglio guardare in faccia la realtà e andare in Spagna o in Turchia a fare la FIVET».

«Dove andate? Ma siete matti?».

«No, mamma. In questi paesi la legislazione è meno restrittiva e il trattamento meno invasivo che da noi».

«Senti, vatti a riposare che mi sembri un po’ stressata, figlia mia!».
Intanto il nome del medico me lo ero segnato su un post-it e messo in un cassetto, il cassetto dei sogni.
Dopo qualche giorno su Internet l’ho rintracciato – lavorava in un ospedale della provincia di Pavia –  e abbiamo fissato un appuntamento in settimana.

Il giorno del viaggio, io e mio marito ci fermiamo a pranzare in un ristorante immerso nel verde e ridiamo dell’audacia e risolutezza con cui siamo partiti. Sulla scia dell’ottimismo mi sono fatta promettere che saremmo ritornati in quel ristorante non più in due, se l’esperienza che ci accingevamo a vivere fosse andata nel verso giusto. Con gli occhi lucidi per l’emozione lui aveva annuito, senza parlare.
Alle 18 entriamo nell’ambulatorio del prof. I. Vedendolo sono rimasta di stucco, sia perché me lo ero figurato più giovane, sia perché aveva la sigaretta accesa ed era avvolto da una nuvola.

«Ci risiamo!» ho pensato.

Invece mi sono subito ricreduta. Mentre gli raccontavo la storia dall’inizio, ha passato in rassegna tutte le analisi che avevo effettuato e la cartella clinica relativa al primo intervento, dove ha decifrato (solo un medico poteva riuscirci!) che durante l’operazione la cisti si era rotta in addome, cosa che a suo dire, a un bravo chirurgo non dovrebbe mai succedere. Lui ha annotato tutto con estrema accuratezza su un foglio. Poi ci ha spiegato che per una diagnosi accurata delle cause d’infertilità è necessario procedere con una laparoscopia diagnostica, durante la quale gli eventuali difetti correggibili si rimuovono. La fiducia che promanava dalle sue parole si è fatta strada prima nel mio cuore poi nella mia testa, tanto che alla sua domanda: «Lei quando sarebbe disposta a sottoporsi ad un eventuale intervento?» la risposta mi è scivolata di bocca tutto d’un fiato: «il prima possibile».
Per la prima volta ho chiuso alle mie spalle la porta di un medico felice di averlo incontrato.
Dopo due settimane, ci presentiamo alla reception dell’albergo situato davanti all’ospedale, lasciamo i bagagli e usciamo. Passeggiamo per tutta la città fino a farci dolere i piedi, per entrare in sintonia con quella che è nel nostro immaginario la città della speranza e della vita.
Durante la cena evitiamo di parlare dell’intervento per non guastare l’atmosfera magica che si è creata. La notte trascorre velocemente e il momento del ricovero arriva. Armati di coraggio, attraversiamo la strada seguiti dal mio trolley azzurro pieno di camicie da notte, mutandine e ventagli, per combattere l’afa di questo mese di agosto. Le analisi pre-operatorie segnalano la formazione di un’altra cisti e devo far appello a tutta la fiducia di cui ho cercato di fare il pieno, per non scoraggiarmi.

La sera prima dell’intervento il mio caro professore mi viene a rassicurare, con una levità che appartiene solo alle piume o forse agli angeli e con quell’autorevolezza temperata dal sorriso gentile, che si è ormai stampato nella mia mente. Perché lui rappresenta in questo momento la mia speranza.

La notte passa comunque insonne. Per fortuna non sono sola in questa stanza dal soffitto interminabile di questo ospedale che ha più di 500 anni. L’altro letto è occupato da una ragazza di una simpatia travolgente, ricoverata per una minaccia di aborto. Parliamo tutta la notte, cercando di rassicurarci reciprocamente, fino a che, quando ormai albeggia, ci addormentiamo.
Ci sveglia mio marito alle 8. Riesco a malapena a fare una doccia e a lavarmi i denti quando arriva l’infermiera a prelevarmi.

Nonostante cerchi di mantenere la calma, la tensione sale ogni minuto di più. Fra poco sarà tutto compiuto. La paura che qualcosa non vada per il verso giusto fa capolino e fa vacillare le speranze accumulate in tutto questo tempo. Mio marito cerca di sorridere per infondermi un po’ di coraggio ma la sua bocca riesce a malapena a stiracchiarsi in una smorfia. Lo capisco. L’ultima volta che sono entrata in sala operatoria, poco più di un anno fa, non è stata una bella esperienza per lui, vedermi caricare su una lettiga, sparire dietro le porte dell’ascensore, e tornare quattro ore dopo, ad intervento terminato. «Questa volta deve andare diversamente!».

Mentre mi portano via, la tensione accumulata durante l’attesa lascia progressivamente il posto alla lucida determinazione di superare il momento dell’operazione con coraggio. In sala operatoria, i medici e gli infermieri ce la mettono tutta per farmi forza, con battute di spirito e parole di incoraggiamento. Il professore arriva per ultimo, mi saluta affettuosamente comportandosi con la naturalezza di chi si sta accingendo a bere un caffè, o nel suo caso, a fumare una sigaretta. Mi spiega come si svolgerà l’intervento, dicendomi infine: «ci rivedremo … tra un attimo». Ed è stato proprio così: tra il momento in cui ho chiuso gli occhi sotto l’effetto dell’anestesia e quello in cui li ho riaperti al termine dell’intervento, mi è sembrato essere passato solo un secondo. Mai come in quel momento ho apprezzato tanto la chimica.

«Signora, si svegli. L’intervento è riuscito perfettamente» mi sento dire da un dottore dai capelli e barba rossi che non avevo notato prima. Vengo a sapere più tardi che è stato lui, il dottor B. – ora primario di ginecologia di un ospedale della provincia di Pavia – ad aver effettuato una parte importante dell’intervento. Un macigno mi scivola via dal cuore in quell’istante e ho solo voglia di vedere mio marito prima di addormentarmi di nuovo.

Il professore viene a trovarmi nel pomeriggio, per spiegarmi che ha trovato una situazione infiammatoria in atto e numerose aderenze che avevano provocato una alterazione funzionale di tube e ovaie. Con l’intervento la probabilità di rimanere incinta in modo naturale è aumentata notevolmente, una volta trascorsi 4 mesi di menopausa farmacologica.

Il tempo passa in fretta e arriva il giorno della visita di controllo:

«Signora, lei ha un bacino da maternità. Mi tenga informato degli sviluppi», mi dice il mio caro professore.

Torniamo a casa anche questa volta con una buona carica di fiducia. Ma non vogliamo illuderci quindi cerchiamo di distrarci quanto più possibile dal pensiero della gravidanza, per non rovinare la nostra intimità con aspettative eccessive.

La vita riprende tranquillamente. Arriva il giorno di San Valentino del 2005. Ho voglia di preparare qualcosa di speciale. Apro il frigo per trovare ispirazione su cosa cucinare. Pizza! Mentre lavoro l’impasto, l’azione congiunta di mani, testa e cuore modella due

pizze proprio a forma di cuore. Ma sembra mancare qualcosa. Ci penso un po’, poi con l’impasto avanzato preparo un altro cuoricino più piccolo. Inforno le tre pizze proprio mentre mio marito entra in casa.
«Buon San Valentino, amore mio».

«Quanto sei bella, cucciola!».
«Ti ho preparato una sorpresa, ma non ti montare la testa: si tratta di cibo».
«Bene, basta che dopo tu sia il mio dessert».
Il giorno dopo mi tornano le mestruazioni dopo i quattro mesi di menopausa farmacologica.
Qualche settimana dopo mentre preparo le valige per andare a sciare.
Tuta, calzetti, sciarpa, cappello, guanti, costume…
«Forse il costume non mi servirà perché dovrei avere le mestruazioni questi giorni» penso fra me e me. Prendo il calendario e con mia grande sorpresa scopro che sono al 32° giorno del ciclo. «Strano, perché di solito ce l’ho regolare, di 28 giorni: dipenderà dalla cura?».
Ma non sono del tutto convinta. Cerco un test di gravidanza: devo averne certamente uno. Ne ho fatti così tanti in questi anni che sono diventati ormai uno strumento familiare. Mentre aspetto l’esito del risultato, si innesca il noto meccanismo in cui da un lato cresce la speranza che il risultato sia positivo, e dall’altro una vocina mi dice: «non ti illudere, sarà negativo, come le altre volte».
Nella breve attesa di 2 minuti, mi siedo, allungo una mano verso la libreria e prendo un libro di preghiere. In questo momento pregare è la cosa che mi viene più spontanea. Apro una pagina a caso mi trovo davanti la preghiera a Maria sull’Annunciazione: «Lupus in fabula!». Una doccia fredda mi avrebbe provocato meno brividi. Comincio a pregare con tutta me stessa che questa strana coincidenza racchiuda in sé una qualche verità. Con il cuore che mi pulsa in petto all’impazzata mi precipito in bagno, afferro il test e lo leggo, con la folle speranza che sia positivo. Ma quando vedo le tre linee che indicano lo stato di gravidanza non riesco a credere ai miei occhi, che si inondano di lacrime per l’incredulità, l’emozione, la gioia.
va vita, generata da noi due sta crescendo nel mio grembo! Non ci posso credere…e la corsa che ho appena fatto per prendere l’autobus gli avrà fatto male? e la preghiera che ho appena letto? e il rimprovero a mia madre e …». Una marea di pensieri ed emozioni si alzano dentro di me in quel preciso istante ed entrano a far parte di me, per sempre. Chiamo subito mio marito:

«Amore, quando torni stasera troverai la finestra spalancata così puoi andare fuori a gridare quel che sai!».

Avrà il coraggio di urlare al mondo: «SARÒ PADRE!» come ha promesso di fare il giorno che avesse saputo di aspettare un figlio? Confuso e con un cliente di fronte, avrà fatto ricorso a tutto il suo autocontrollo per non mettersi a saltare sulla scrivania. La cornetta del mio telefono nelle ore successive diventa rovente, perché voglio condividere la grande gioia con il mondo intero.

È andata proprio così.
Semplicemente così.
La promessa di tornare in quel ristorante sarà mantenuta.
E ora per San Valentino di pizze a forma di cuore ne inforno cinque.

Sabrina Quattrini

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